La ricerca sull’impatto delle nuove tecnologie sulle nostre vite è estremamente frammentata: campioni di popolazione ridotti, questionari somministrati direttamente al campione indagato, un focus estremo su poche variabili che si ipotizzano possano essere le responsabili dell’effetto che si vuole indagare.

Le conclusioni di queste indagini potrebbero definirsi “fluide”, almeno quanto l’oggetto che viene esaminato, ossia una tecnologia in continua evoluzione.

I paradossi della ricerca sugli impatti del digitale

Viviamo una situazione paradossale in cui, nonostante siamo entrati a pieno titolo nell’era dei big data, molte ricerche del settore proseguono analizzando campioni molto ristretti della popolazione indagata, e si focalizzano su un numero altrettanto ristretto di parametri.

Questo spesso rende tali ricerche limitate, in alcuni casi anche fuorvianti e capaci di generare panico morale.

Ecco, quindi, che i social media inducono i nostri figli alla depressione, ma allo stesso tempo li allenano nelle abilità sociali. Che i videogames rendono violenti, ma allo stesso tempo sviluppano le abilità cognitive. Che lo schermo rende dipendenti, ma nel frattempo ogni più piccolo elemento della nostra vita passa attraverso quella lastra di vetro.

Tutta questa confusione genera bias, ossia distorsione, sulle conclusioni, vediamo perché.

Un campione di popolazione limitato

Molte ricerche del settore si concentrano su un campione molto ristretto di popolazione.

Molto spesso sono gli stessi ricercatori che entrano nelle scuole e somministrano di persona i questionari.

In altri casi viene costruito un questionario online che però presenta una reach molto limitata, in quanto i ricercatori si avvalgono della loro rete per raggiungere il maggior numero di persone in target.

Questo comporta che la popolazione indagata spesso appartenga ad una zona ben specifica, in alcuni casi localizzata all’interno di un singolo quartiere cittadino, oppure appartenente al medesimo ceto sociale o ambito di interesse, riducendo l’efficacia e l’universalità della ricerca stessa.

Focus estremo su un numero ristretto di variabili

Si parla di digitale, per cui viene spontaneo indagare il fenomeno rimanendo all’interno dell’ambito digitale.

Quindi risulta naturale costruire la ricerca in modo da ricercare quelle variabili che il ricercatore ritiene essere in qualche modo responsabili del fenomeno che si vuole indagare.

La conseguenza è una ricerca che probabilmente sarà biased per sua natura, in quanto rischia di perdere di vista variabili apparentemente estranee al fenomeno, ma che risultano alla fine essere strettamente correlate e quindi influenti.

Riducendo così tanto il campo visivo dell’indagine si finisce per esaltare il ruolo di variabili la cui influenza è minima, se non addirittura nulla.

Questionari autosomministrati

La maggior parte delle volte le ricerche vengono somministrate direttamente al campione indagato.

Ci si affida quindi all’onestà, alla trasparenza e alla consapevolezza dei soggetti indagati, elementi che non sempre si verificano.

In particolare, si presuppone che questi soggetti abbiano una buona comprensione del fenomeno indagato, e un’ottima consapevolezza di che cosa sta avvenendo nelle loro vite, sia interiori che esteriori.

Quest’ultimo fattore in particolare presenta le maggiori criticità: può un soggetto essere pienamente coinvolto all’interno di un Sistema e allo stesso tempo essere in grado elevarsi e osservare tutto quanto dall’alto?

In una certa misura è possibile, ma bisogna essere molto ben addestrati, cosa che non possiamo pretendere dai non addetti ai lavori.

I vertici di osservazione per l’analisi dei dati

Una stessa ricerca, soprattutto quando è così limitata nella sua costruzione e nella raccolta dei dati, può venire interpretata in modi differenti a seconda del vertice di osservazione che si utilizza.

Questi vertici di osservazione guidano non solo la nostra percezione del fenomeno, ma anche quali variabili considereremo e quali invece riterremo irrilevanti.

E’ uno step che si pone nel momento della costruzione della ricerca.

Molto spesso infatti quando parliamo di digitale e dei suoi effetti nelle nostre vite tendiamo a considerare tutte quelle variabili che implicano, in un modo o nell’altro, la presenza del digitale, perdendo così di vista altre variabili non direttamente correlate ma comunque molto influenti.

In alcuni casi si è anche verificato che una stessa ricerca desse risultati opposti. Da qui poi se ne estrapolano percentuali, correlazioni, e la ricerca ne risulta distorta.

Espandere il raggio di indagine oltre il digitale

E’ proprio in questo contesto così tumultuoso e confuso che Andrew Przybylski e Amy Orben, del Department of Experimental Psychology dell’Università di Oxford, hanno lanciato una provocazione: anziché reinventare la ruota ricercando ogni volta dati ripartendo da zero, perché non sfruttare tutti i dati che abbiamo già a nostra disposizione?

In fin dei conti viviamo nell’era dei big data, giusto?

Quindi il mondo dispone già di data set molto capillari, di larghissima scala, e soprattutto raccolti dal comportamento spontaneo e ignaro dei soggetti che vogliamo indagare.

Con questo pensiero i due ricercatori hanno pensato di indagare lo stesso fenomeno, ossia l’effetto che le nuove tecnologie hanno sui nostri ragazzi raccogliendo data set che andassero anche al di là dell’elemento “digitale”.

Questo gli ha permesso di analizzare i comportamenti spontanei di oltre 350 mila adolescenti.

Il ricorso alla Specification Curve Analysis, ossia uno strumento statistico che permette l’analisi su larga scala di elementi anche non direttamente collegati tra di loro, ha permesso ai due ricercatori di allargare il campo di indagine e andare oltre quelle variabili strettamente connesse all’elemento digitale.

Sono arrivati ad un’importante scoperta: quando le stesse statistiche che puntano i riflettori sui pericoli dell’uso della tecnologia per i nostri ragazzi vengono analizzate in un contesto più ampio, gli effetti dell’utilizzo dei cellulari sulla salute mentale dei nostri ragazzi risultano essere molto ridotti.

Se ci allarghiamo a livello dell’intera popolazione dei nostri adolescenti, allora questi effetti possono risultare anche trascurabili.

Più precisamente parliamo di un’influenza di appena 0.4% sul benessere mentale dei nostri ragazzi.

Gli stessi autori affermano, con tono sarcastico e provocatorio, che mangiare patate ha circa lo stesso grado di influenza, e portare gli occhiali risulterebbe essere anche più dannoso rispetto all’utilizzo dei cellulari sul benessere dei nostri figli.

Gli stessi autori in un altra ricerca effettuata su 1004 adolescenti in Inghilterra tra i 14 a 15 anni hanno rilevato che non esistono prove per cui i videogiochi violenti porterebbero a comportamenti violenti.

Su cosa bisogna puntare realmente i riflettori

La ricerca di Andrew Przybylski e Amy Orben non ci fornisce solamente nuovi insight riguardo al reale grado di impatto della tecnologia sulla salute mentale dei nostri figli.

Di fatto la sua portata è ben maggiore, in quanto mette in luce tutti i limiti delle tecniche di indagine utilizzate sino ad ora nell’indagare questi fenomeni.

Fino ad ora abbiamo sempre guardato nella direzione sbagliata, sia in fase di costruzione delle ricerche, sia in fase di raccolta e di analisi dei dati.

Soprattutto, siamo sempre rimasti ciechi di fronte a come la nostra società si è evoluta in questi ultimi anni, modificando la figura del ricercatore, che si trova oggi ad avere già tutti i dati a disposizione perché “volontariamente offerti” dai soggetti stessi.

E anche qualora mancassero dei dati, rimarrebbe comunque poco da inventarsi, e tutto da raccogliere.

Fonte: agendadigitale.eu