“Io non lo farei se fossi in te, potresti non essere in grado di gestirlo.” Mio fratello mi aveva messa in guardia. Era il 2006 e mi ero appena iscritta a questa cosa misteriosa chiamata Facebook: un sito dove vedevi le foto della vita dei tuoi ex compagni delle medie, fondamentalmente. Mi ero iscritta per capire se il mio fidanzato dell’epoca mi avesse tradito mentre era all’università. Avrei fatto di tutto per sapere “la verità” e capire cosa fosse successo in tutte quelle serate quando non ero con lui. Grazie a Facebook, sono bastati pochi clic per trovare esattamente quello che stavo cercando: tantissime foto di lui con quella ragazza (molto più carina di me) che avevo sempre sospettato gli piacesse. In quel momento è iniziata la mia relazione malata con i social.

Avevo sempre avuto qualche problema con l’ansia e soffrivo di un disturbo ossessivo compulsivo. Facebook era come una bestia capace di alimentare le mie più gravi insicurezze e farmene sorgere altre, ancora più terribili e irrazionali; era come il primo, vero social media a cui mi sono iscritta fosse in grado di guidare il mio pensiero ossessivo. Quando quel giorno mi mise in guardia, mio fratello l’aveva già capito, ma io non sono riuscita a resistere alla tentazione. E poi, 12 anni dopo, alcune menti ribelli della Silicon Valley hanno confermato quello che temevo: Facebook è effettivamente programmato per alimentare quel tipo di sentimenti negativi.

Mi riferisco al lungo articolo pubblicato da David Ginsberg, direttore della ricerca in Facebook, e Moira Burke, esperta di ricerche, in cui ammettono che il social network ha effetti negativi sulla salute mentale degli individui. Nella “confessione”, i due spiegano il modo in cui il social “induce a confrontarsi in modo sbagliato con gli altri, peggio di quanto accada nella vita reale, perché spesso i post sui social sono più curati e abbelliti rispetto alla realtà.” Il fatto che Facebook (che possiede anche Instagram) abbia ammesso questa verità è stato un sollievo, ma allo stesso tempo, ci mette di fronte a un’amara verità: il legame tra salute mentale e social media è stato un problema fino a oggi ampiamente sottovalutato.

In un recente articolo sul Telegraph, il Chief Executive del sistema sanitario inglese Simon Stevens descrive l’effetto dei social media e la dipendenza online come una vera e propria “epidemia.” Un sondaggio recente su giovani tra i 14 e i 24 anni, condotto dalle associazioni The Royal Society for Public Health e Young Health Movement, ha dimostrato come le app a base di immagini aggravino le sensazioni di ansia e inadeguatezza tra i giovani: Instagram sarebbe la peggiore app in fatto di salute mentale giovanile, seguita da Snapchat e Facebook. Tutte generano ansia, depressione, problemi del sonno, solitudine, bullismo, problemi di rappresentazione del corpo e FOMO.

Qualche tempo fa, il CEO di Apple Tim Cook ha ammesso di vietare a suo nipote l’uso dei social media. Ma nessuno ha puntato il dito contro la Silicon Valley con la stessa determinazione dell’ex Google Design Ethicist Tristan Harris, che ha lasciato l’azienda nel 2016 per fondare l’associazione non-profit Time Well Spent, con lo scopo di sensibilizzare i creatori e gli sviluppatori di app all’impatto che il loro lavoro può avere sul benessere dei giovani. In un’intervista recente, rilasciata il 5 luglio 2018 su YouTube, Harris ha raccontato l’universo alla Black Mirror in cui vivono i creatori di app nella Silicon Valley. “Quando ero a Stanford, ho partecipato a un laboratorio di tecnologia persuasiva in cui insegnavano ai giovani programmatori i principi della psicologia persuasiva. Durante le lezioni, si imparavano i fondamenti per l’addestramento dei cani, il modo in cui i casinò manipolano i propri visitatori inducendoli a giocare di più alle slot machine… I ragazzi che seguivano quel corso con me sono i fondatori Instagram. La narrativa e la storia alla base di Facebook non sono altro che semplici strumenti che l’utente decide di usare in modi diversi. In realtà, è tutto falso. Dietro l’app, ci sono almeno 100 ingegneri che sanno benissimo come funziona il tuo cervello.”

“Il confronto continuo con gli altri è la cosa che mi ossessiona di più dei social. Non sono gli influencer, le modelle o i vip a colpire la mia attenzione, ma le immagini e le vite dei miei amici, e degli amici dei miei amici. Quando la sola cosa che vedi di una persona è il suo sorriso smagliante su una spiaggia meravigliosa, o il suo look impeccable prima di una grande serata e i suoi successi sul lavoro, è molto semplice credere che quella sia la sua vita quotidiana.”

Il confronto continuo con gli altri è la cosa che mi ossessiona di più dei social. Non sono gli influencer, le modelle o i vip a colpire la mia attenzione, ma le immagini e le vite dei miei amici, e degli amici dei miei amici. Sono persone che non vedo quasi mai nella vita reale, ma con cui metto a confronto la mia vita ogni giorno, perdendo quasi sempre questa stupida gara di cui sono in realtà l’unica partecipante. Quando la sola cosa che vedi di una persona è il suo sorriso smagliante su una spiaggia meravigliosa, o il suo look impeccable prima di una grande serata e i suoi successi sul lavoro, è molto semplice credere che quella sia la sua vita quotidiana.

La pubblicità ci vende da sempre persone bellissime e aspirazioni nobili, ma è la dimensione del confronto sociale tra pari a cui non eravamo preparati. “Non è mai successo nella storia dell’umanità che quando ti svegli la mattina, la prima cosa che vedi sullo schermo sono le prove di quanto la vita degli altri sia migliore della tua,” dice Tristan Harris. “Online, vedi continuamente foto dei tuoi amici che hanno vite perfette. E questa è un’esperienza del tutto nuova per l’essere umano.”

Marianne Mikhail è una psicologa 30enne ed è una delle poche consulenti che io abbia incontrato ad avere anche un profilo attivo sui social, cosa che le offre una prospettiva unica nel suo rapporto con i clienti più giovani. “Ho clienti giovanissimi che fin dai 14 anni soffrono per il confronto continuo con i propri pari su Instagram, Facebook e Snapchat. Attraverso i social, vedono gli amici come incredibilmente affascinanti e inarrivabili, sentendosi decisamente poco attraenti e sminuiti, un duro colpo per la propria sicurezza.” Mikhail parla dei social media come di “un palcoscenico dove alimentare e aggravare le proprie insicurezze, e allo stesso tempo come un posto dove creare un’immagine di sé falsa, modificabile e adattabile per eliminare qualsiasi tratto negativo.”

Jayne Hardy è la fondatrice di The Blurt Foundation, una community digitale che offre supporto tra pari a tutti coloro che soffrono di disturbi mentali. Hardy crede nella necessità di rappresentarsi in modo onesto e fedele online. “La mia presenza online offre una prospettiva reale sulla mia vita: con tutto il bello e il brutto che c’è,” mi dice. “C’è questa concezione assurda che vulnerabilità sia sinonimo di debolezza, ma nella mia esperienza, quando mi sono lasciata andare alla vulnerabilità, sono riuscita a entrare in contatto con molte più persone, facendo in modo che loro mi raccontassero la loro esperienza.” La campagna #WhatYouDontSee è diventata virale grazie a lei, e moltissime persone hanno condiviso i propri disturbi mentali sui social. Jayne è stata invitata a tenere un discorso per TEDx, e qui ha raccontato di come la depressione ha distrutto la sua giovinezza, dai 20 anni circa. Anche Hardy ha sofferto molto il confronto con gli altri. “È come avere un posto in prima fila per assistere allo spettacolo della vita degli altri,” dice. “Sappiamo a quali progetti stanno lavorando, quali opportunità hanno avuto ed è inevitabile sentirsi inferiori. Ma cerco sempre di ricordarmi che i social non sono la vita reale, ma solo una piccola parte della storia, che ovviamente non include la fatica, i sacrifici, il duro lavoro e le insicurezze di tutte quelle persone bellissime e di successo che vediamo scorrere nel nostro feed. Tendiamo a prendere le immagini alla lettera, e troppo spesso ci dimentichiamo tutto quello che c’è dietro.”

La scorsa estate è stato il momento più difficile per la mia salute mentale. Dormivo due ore a notte, mi sentivo sempre stanca e nulla mi sembrava reale. Ho iniziato a compilare una lista di cose che odiavo di me, e non facevo altro che confrontarle con la vita della gente su Instagram. Mi sono anche autoinflitta del dolore a volte, per la frustrazione. Proprio in quel periodo, una sera ho un incontrato un amico al pub, non ci vedevamo da un bel po’. “Come stai?” mi chiede. “Anche se in realtà lo vedo su Instagram che stai alla grande. Nessuno si gode l’estate a Londra quanto te.” Dopo quella frase, ho riguardato i miei ultimi post: Glastonbury, il carnevale di Notting Hill, un viaggio stampa su un jet privato e tantissimi post in cui mi vantavo per i miei successi sul lavoro. Quella persona che avevo proiettato online era felice, ma era l’esatto opposto di quello che accadeva nella realtà.

“Quando ho capito che anche io ero parte del problema ho deciso di raccontare la verità e ho postato online una lista dei miei problemi di salute, dei farmaci che prendo e dei mantra che mi aiutano a superare il disturbo ossessivo compulsivo.”

Quando ho capito che anche io ero parte del problema, in occasione della Settimana della salute mentale, ho deciso di raccontare la verità e ho postato online una lista dei miei problemi di salute, dei farmaci che prendo e dei mantra che mi aiutano a superare il disturbo ossessivo compulsivo, tipo “Tu non sei i tuoi pensieri, e i tuoi pensieri non sono fatti.” Quel post ha avuto molti più like di qualsiasi selfie al mare io avessi mai postato, e 66 commenti empatici e di supporto.

@mytherapistsays è un account di meme con 3,2 milioni di follower, gestito da Nicole Argiris e Lola Tash, due amiche, che si ispirano alla propria esperienza con l’ansia e la terapia per raccontare con ironia il disturbo mentale. I meme del profilo parlano di quanto sia difficile alzarsi e andare al lavoro ogni giorno o avere a che fare con gli altri, della tendenza che abbiamo a odiare se stessi, a sentirci soli e del modo in cui tutti cercano di nascondere i propri (veri) sentimenti. “Questo account ci ha aiutato a sorridere dei momenti difficili che abbiamo vissuto,” raccontano Nicole e Lola, “ma allo stesso tempo, passare così tanto tempo con il telefono in mano e trasformare questa cosa in un lavoro vero ha portato con sé, non ansia, ma nuove responsabilità.” Se scherziamo su questi temi è perché li abbiamo vissuti in prima persona. “Anche noi facciamo sempre il confronto tra la nostra vita e quella degli altri su Instagram; quando vediamo qualcuno trasformare e abbellire la propria vita grazie alla chirurgia plastica o ai filtri miracolosi dell’app, siamo condizionate da quello che vediamo, non dal processo che vi sta dietro.”

Dopo tre anni passati ad analizzare queste problematiche e tutti i sentimenti connessi, Nicole e Lola sono diventate esperte in materia. “Devi sempre cercare di essere la versione migliore di te stesso,” consigliano, “quello è l’unico metro di paragone accettabile.” E poi, suggeriscono di condividere online anche i momenti di difficoltà, “Siamo profondamente grate a chi ci scrive un messaggio di supporto, ci capisce e condivide i nostri meme. Fa sempre bene sapere che non siamo soli.”

I social media, tuttavia, sono anche in grado di offrire supporto, ricorda Hardy. “I social media sono stati incredibilmente utili per la mia salute mentale.” dice. “Soprattutto quando soffrivo di depressione ed ero isolata: erano la mia finestra sul mondo esterno. Mi hanno permesso di entrare in contatto con persone che capivano la mia situazione e che sono state molto gentili con me. Grazie ai loro consigli e alla loro esperienza, sono riuscita ad affrontare il mio presente e la depressione, sono stati più utili di qualunque libro.”

I social media sono un gioco pericoloso, ma possono anche offrire ascolto e supporto, uno spiraglio di luce in una grande stanza buia. A prescindere dalle iniziative del NHS, del governo e dei creatori di app della Silicon Valley per tutelare la salute mentale dei giovani, non dobbiamo dimenticare che ci sono anche lati positivi nell’utilizzo dei social e del dialogo online.

“Penso che un ottimo modo per prendersi cura di sé sia capire il ‘perché’ di ogni cosa e ascoltare i nostri sentimenti,” dice Hardy. “Se c’è qualcosa che ci provoca una reazione cruenta e ci fa stare male, è il momento di fermarci e riflettere.” Mikhail suggerisce di dedicare del tempo alla riflessione. “Mettiamo da parte cellulare e tablet, prendiamo un diario e cerchiamo di analizzare i nostri pensieri e le nostre sensazioni. Scrivere permette di sviluppare un punto di vista nuovo e ci aiuta a liberarci dei pensieri negativi. Se ti capita di scrivere cose negative su di te, fermati e pensa a cosa diresti a un amico se lo sentissi parlare male di sé. Usa i fatti e la logica per contrastare i pensieri negativi e irrazionali. È molto probabile che la realtà non sia perfetta e impeccabile come un post Instagram.”

Cerca di evitare di autodistruggerti, ma prenditi cura di te, parla a te stesso come parleresti a un amico, e cerca sempre di vedere il quadro generale delle cose, e non solo quel post Instagram. Per quanto mi riguarda, da quella volta al pub, ho preso coscienza di quello che condivido online, perché voglio assolutamente evitare di diventare schiava di questa versione bella ma irreale di me, e non voglio che questa rappresentazione generi insicurezza nelle persone che mi circondano. Il cambiamento parte da ognuno di noi, e dal nostro profilo Instagram.

Fonte: i-d.vice.com

https://i-d.vice.com/it/article/wj3ypy/legame-social-media-salute-mentale-ansia-depressione