La sindrome di Munchausen è un disturbo psichiatrico in cui una persona finge di essere gravemente malata per attirare attenzione e affetto verso di sé. Chi ne è colpito parla continuamente dei propri trascorsi ospedalieri con una tale precisione nei particolari che qualunque ascoltatore è indotto a credere che si tratti di esperienze realmente vissute. La patologia prende il nome dal Barone di Munchausen, un ufficiale tedesco divenuto famoso per le storie inverosimili che spacciava per vere: il suo sbarco sulla Luna, un viaggio su una palla di cannone, un avventura che lo vide uscire incolume dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i propri capelli.

Non è facile riconoscere un malato vero da un bugiardo, perché la vita delle persone affette dalla sindrome di Munchausen è tutta concentrata intorno ai mezzi per imitare segni e sintomi che avvalorino il racconto della loro presunta malattia. Perciò hanno affinato il loro linguaggio medico, conoscono ogni prassi ospedaliera e sono capaci di scriversi da soli una diagnosi con una terminologia medica così precisa da ingannare facilmente tutti.  

Questa malattia, conosciuta dal 1951 grazie a un articolo dell’endocrinologo ed ematologo britannico Richard Asher sulla rivista medica The Lancet, sta conoscendo un nuovo inquietante sviluppo sul web, in particolare sui social network.

Non si tratta di ipocondria. Un ipocondriaco è spaventato dai propri sintomi, e anche se li ingigantisce, non ne crea ad arte. I pazienti con la sindrome di Munchausen sono invece mentitori che sanno di mentire: se qualcuno osa mettere in dubbio la loro recita sono capaci di autoinfliggersi danni, simulare risultati di test medici, inviare a utenti Facebook foto di cicatrici ospedaliere e dettagli di operazioni chirurgiche prese dal web. I racconti delle loro interminabili trafile ospedaliere e diagnostiche e degli interventi chirurgici a cui dicono di essersi sottoposti ottengono sempre molta attenzione. I profili social di questi pazienti sono affollati da persone che li considerano come “eroi della malattia”.

A volte questi individui sono personaggi inventati, dei fake in piena regola. Negli Stati Uniti ha fatto scalpore il caso della famiglia Dirr, una presunta coppia – lui poliziotto, lei chirurgo – che avevano un figlio di cinque anni, Elia, di cui raccontavano sul web la lotta contro il cancro. Nel 2012 la madre di Dana, incinta, ebbe un incidente d’auto, ma prima di morire riuscì a partorire. I post su Facebook in cui il marito descriveva la morte della moglie diventarono virali. Migliaia di utenti Facebook seguirono per anni il racconto della lotta del piccolo Elia, soprannominato “il guerriero”, fino a quando una blogger scoprì che tutta quella storia era stata inventata da una ragazza dell’Ohio che passava i giorni a creare post drammaticissimi e falsi. 

In un articolo del Casey Journal, “Munchausen’s syndrome presenting as rectal foreign body insertion: a case report”, è stata riportata la radiografia di un paziente con sindrome di Munchausen che si era infilato un corpo estraneo nel retto per simulare un blocco intestinale. 

Marc Feldman, professore di psichiatria della University of Alabama e studioso della materia, spiega il perché questa sindrome, quendo si manifesta sul web, è difficilissima da scoprire: “Una volta le persone affette dalla sindrome di Münchausen dovevano andare in una biblioteca medica, fare ricerche sulla malattia che volevano simulare, e andare in un ambulatorio medico per fingere di averne i sintomi. Ora tutto questo non è più necessario: basta andare su Internet e ingannare centinaia o migliaia di persone”.

L’aspetto più incredibile e moralmente inaccettabile di queste storie simulate è che a volte il profilo social dei finti malati è registrato con un nome falso e pieno di fotografie che mostrano solo dettagli, nulla dicendo della reale identità della persona. A fronte di un effluvio di dati medici e diagnosi, la reale identità del profilo rimane oscura e il malato stesso sembra opporsi con riluttanza a qualsiasi tentativo di trasparenza. 

Per distinguere tra falso e vero, impresa difficile nel simul-mondo digitale, è necessario che un malato ci metta la faccia. Raccontarsi online durante una malattia può essere un modo per farsi coraggio e donare speranza a chi ci legge, poiché la gente ha bisogno di immedesimarsi nella sofferenza altrui per vincere la propria. 

Anna Lisa Russo è una malata di cancro che purtroppo non ce l’ha fatta. Aveva condiviso la sua esperienza su un blog e un libro: ‘Toglietemi tutto ma non il sorriso’, pubblicato da Mondadori.

Salvatore Iaconesi ha creato il sito la-cura.it per condividere i suoi dati medici e ricevere il contributo di chi vuole regalargli un post di incoraggiamento, una poesia, un disegno. È seguito da milioni di persone che apprezzano il suo coraggio di mettersi a nudo.

Di Nadia Toffa e della sua tragica fine si è detto tutto. Anche lei ha condiviso il suo dolore mettendoci la faccia. Niente mascheramenti, niente fingimenti.

La malattia è un nero fantasma che ci tende l’agguato quando meno ce lo aspettiamo. La maggior parte di noi ha avuto familiari che hanno vissuto l’esperienza del cancro, per questo abbiamo bisogno di confrontarci con chi lo combatte tutti i giorni. 

Ma attenzione: se non manteniamo vivo il lume del dubbio corriamo il rischio di alimentare la menzogna e la malattia altrui, non quella simulata ma la vera, psichiatrica: la sindrome di Munchausen.

Fonte: fai.informazione.it

https://fai.informazione.it/D7E84DEB-C97C-4120-9058-4CB98FB2233B/Ho-il-cancro-quanti-like-mi-dai-La-sindrome-di-Munchausen-e-i-finti-malati-del-web