Uno dei temi centrali, direi fondativi, della psicoterapia è la diagnosi e il sistema nosografico sul quale questa si sostiene.

Il puzzle diagnostico

Sia chi osteggia e denigra ogni forma diagnostica sia chi difende a spada tratta il proprio modello deve prima o poi giungere ad una formulazione del caso. Cosa dice il cliente quando parla della sua sofferenza? Perché manifesta proprio quel tipo di sofferenza? Come si è originata? Cosa la mantiene ed impedisce che la persona stia meglio? Quali tentativi ha finora sperimentato per superarla?

Queste sono alcune tra le numerose domande che un terapeuta si pone nell’intraprendere assieme al proprio cliente un percorso di auspicabile cambiamento. Ma come una sorta di gioco di prestigio in cui il mago non sembra mai finire di estrarre fazzoletti colorati, la diagnosi porta con sé la nosografia, la teoria della cura, della tecnica, della relazione e chi più ne ha più ne metta. E come un telefono senza fili, ad ogni passaggio l’informazione rischia sempre di essere distorta e travisata, e siamo tutti convinti di aver perfettamente compreso ed espresso ancor più chiaramente!

Esempio eclatante di questa babele è la recente evoluzione della CBT (Cognitive Behavioral Therapy) o meglio di quella cornice che Steven Hayes contribuì a definire Third Wave (terza onda o ondata) e che oggi include forme assai diverse di psicoterapie evidence-based (Hayes & Hofmann, 2020). Sì, perché Aaron Beck, fondatore della CBT, creò le basi del suo successo anche grazie alla continua attenzione alle prove di efficacia. Con Beck la psicoterapia riconosce, senza se e senza ma, che non posso dire se quel che faccio è efficace se non posso dimostrare cosa ho fatto e perché l’ho fatto!

E fin qui niente da segnalare o eccepire. Ma come in ogni storia degna di interesse, giunge un però. O meglio giunge la Terza Onda a rovinare i piani e a mostrare un accavallarsi di comorbidità nelle diagnosi (quelli che si credeva fossero depressi, erano anche ansiosi e un po’ evitanti) e di evidenze in favore di interventi che hanno dei target che fino ad allora non consideravamo evidence-based (la mindfulness funziona dimenticandosi la ristrutturazione cognitiva e concentrandosi sull’attenzione).

Con cosa sostituiamo le categorie?

La Terza Onda ha risposto alle critiche più ricorrenti alla CBT focalizzandosi sempre più sui processi. E questo cambiamento si è legato ad interventi basati su mindfulness, accettazione ed in genere ad una ritrovata prospettiva mind-body. In forme diverse tutti hanno cercato di mantenere alcune componenti base del lavoro di Beck: i belief hanno incontrato gli schemi, i pensieri automatici i rimuginii, la ristrutturazione cognitiva l’imagery, e tanto altro ancora. Ognuno però ci ha messo del suo, o meglio ognuno ha preso quel che già esisteva rielaborandolo secondo la propria prospettiva.

Uno dei rompicapi su cui tutti però ci perdiamo è come mettere assieme una diagnosi che decantiamo non più categoriale con due dati: uno osservato, uno latente. Quello osservato è la mole innegabile di evidenze a favore della significatività statistica, predittività longitudinale e rilevanza clinica di tratti e processi. Quello latente è l’uso da parte di tutti gli alfieri della Terza Onda e non solo di dimensioni e fattori transdiagnostici pur dichiarandosi spesso fieri oppositori delle teorie dei tratti e dei processi.

Purtroppo, sui tratti incombe una sorta di pregiudizio morale simile a quello sulla genetica, come se il sapere che non supererò mai i 181 centimetri di altezza e non sarò mai una persona spontaneamente ordinata annulli il mio libero arbitrio! Ritengo che se riconosciamo l’utilità di un approccio evidence-based come la CBT non possiamo poi affermare che le soverchianti evidenze a favore di modelli quali Big Five (Widiger et al., 2013), HiTOP (Kotov et al., 2017), AMPD (Waugh et al., 2017) e RDOC (Cuthbert & Kozak, 2013) sviliscano la natura dell’uomo e non permettano di comprendere il funzionamento dei nostri clienti. La sensazione è che davvero siamo ad un guado. In cui coloro che hanno contribuito a dar valore alla Terza Onda mostrano chiaramente quale sia la direzione per uscir dal fiume. Nessuno ad oggi ha chiaro cosa vi sia là oltre e in molti vorremmo tener almeno un piede sulla sponda nota.

3 idee per far pace (si spera) con i tratti

Il lettore si starà chiedendo, con fastidio o curiosità, dove io voglia andar a parare e quali siano le risposte che offro. Ecco, mi spiace deludere, ma verrei meno alle premesse del mio discorso se sollevassi un velo per mostrare chissà quale mirabolante soluzione. I fenomeni complessi richiedono modelli complessi (Del Giudice, 2020). Quello che posso delineare è un tentativo parziale che sia coerente con quanto la letteratura sembra suggerire.

  • Processi e tratti. L’uso di una sola prospettiva o modello sarà necessariamente fallace, così come l’assenza di dettagliate rilevazioni tramite strumenti autosomministrati e interviste. L’avanguardia della ricerca in tale ambito sta portando avanti due filoni fondamentali (Samuel & Lynam, 2019): l’integrazione di misure su tratti di personalità e processi transdiagnostici al fine di individuare fattori comuni di psicopatologia; una visione sempre più tempo-dipendente delle rilevazioni che valorizzi il variare di queste piuttosto che la loro staticità. In pratica, significa che visto riconosciamo sempre più la rilevanza della gravità psicopatologica (si pensi alla mai dimenticata scala di funzionamento del DSM-IV-TR o al criterio a dell’AMPD) è importante indagare quali tratti o processi si associano (nonché spiegano e predicono) tale gravità. Al contempo abbandonando le categorie per la loro instabilità esplicativa, conviene monitorare più volte l’andamento dei famigerati processi e tratti. Sempre più studi ci dicono che perfino la personalità si modula e varia nel tempo e la forma di tale variazione sembra essere essa stessa un predittore psicopatologico. Personalmente integro sempre misure autosomministrate e interviste basate su DSM-5, Big Five e specifici processi e dimensioni. E per la sfortuna dei miei clienti ripeto più volte tali rilevazioni.
  • Dai tratti alle traiettorie. Big Five e DSM-5 ci offrono ad esempio spaccati diversi non solo del problema presentato, ma anche del funzionamento della persona. I dati ci dicono che il Big Five coglie una sorta di architettura base della personalità che tende ad essere abbastanza stabile del tempo e slegata da eventuali interventi psicoterapeutici. Se la mia configurazione si caratterizza per un elevato nevroticismo, fasi specifiche della mia vita (es. un nuovo lavoro particolarmente gratificante) o un intervento orientato al cambiamento (es. psicoterapia) possono mostrare una riduzione dei punteggi. Ciononostante, l’architettura mostrerà sempre una certa rilevanza del nevroticismo. E dunque avere come target terapeutico un punteggio al disotto della media normativa parrebbe poco sensato sia per il terapeuta che per il cliente. I tratti che emergono invece dall’AMPD o da misure transdiagnostiche specifiche ci aiutano ad individuare quella che in precision medicine si definisce una traiettoria (Zimmerman et al., 2019). Ovvero come l’architettura di personalità (es. nevroticismo) o specifici spectra (es. internalizzante) si evolvono nel tempo manifestando forme diverse di sofferenza e di tentativi di adattamento a questa. La stessa persona con elevato nevroticismo sembra caratterizzarsi da sempre per uno spettro internalizzante, ha sviluppato forme di autocritica e perfezionismo per auto-regolarsi di fronte ad un ambiente familiare invalidante e oggi si presenta al nostro studio riportando i criteri per soddisfare un disturbo ossessivo compulsivo di personalità (DOCP). Non avendo ad oggi un modello inattaccabile, vedere lo stesso problema da prospettive diverse, anche categoriali, riduce il rischio del famigerato bias di conferma, leggasi raccontarsela!
  • Il contratto terapeutico. Se abbiamo tutte queste informazioni, come decidiamo su cosa agire? È bene ricordarsi che la domanda sanitaria è dell’utente non del professionista! Ergo, non siamo noi a decidere se si lavora su una manifestazione sintomatologica (es. sintomi depressivi ricorrenti) in tempi relativamente brevi o su una traiettoria di personalità (es. DOCP) in tempi necessariamente medio-lunghi. Quel che sta a noi è esser chiari nell’offerta sanitaria ed avere auspicabilmente alle spalle una équipe o una rete di invii. Sempre per l’onnipresente bias di conferma rischiamo altrimenti di crederci tuttologi. Concordare 8 sedute per lavorare solo sui sintomi depressivi (come ci troviamo a fare nei sistemi sanitari pubblici) non è un’offesa agli dèi della psicoterapia, è la risultante di un sano bilanciamento tra vincoli e possibilità. Ovviamente con la premessa di co-costruire un contratto terapeutico chiaro in cui si spiega cosa si può fare e cosa no. Al contempo, usare la comprensione del funzionamento di personalità per un intervento breve non è farsi distrarre (Wright et al., 2019). È di nuovo aver chiaro i vincoli e dunque le possibilità del nostro agire. Si vedano gli innumerevoli studi sui non-rispondenti alle terapie standard per sintomi ansiosi, depressivi o post-traumatici. Similmente se concordiamo di lavorare sulla personalità non ci dobbiamo dimenticare dei sintomi, sapendo che efficacia e alleanza terapeutica saranno ben più solide se possiamo offrire una precoce riduzione di quegli stessi sintomi (Flückiger et al., 2020).

In conclusione, sì siamo in mezzo ad un guado. Sappiamo che la riva da cui giungiamo è ormai alle nostre spalle e che la direzione intrapresa ci porta innanzi. Tratti, processi e dimensioni sono forse appigli instabili, ma sembrano andare nella direzione auspicata.

Fonte: stateofmind.ithttps://www.stateofmind.it/2020/11/diagnosi-formulazione-psicoterapia/