Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza (Vanacore et al). L’Organizzazione Mondiale di Sanità stima infatti che il numero delle persone affette a livello mondiale si aggiri intorno ai 35,6 milioni. Questa patologia causa, a livello anatomico-cerebrale, un accumulo di beta amiloide che, precipitando all’interno della cellula, impedisce la respirazione e ne provoca la morte; al contempo abbiamo i cosiddetti grovigli neurofibrillari, costituiti da gomitoli di proteina TAU fosforilata, che concorrono anche questi alla morte cellulare (Nelson et al). Si ha quindi atrofia nelle zone limbiche, nelle cortecce entorinali, nell’ippocampo, nelle aree associative parietali e temporali.

Il quadro clinico che ne consegue è molto complesso e invalidante. Il paziente affetto da morbo di Alzheimer sviluppa infatti un declino cognitivo consistente in perdita di memoria, disorientamento spazio-temporale, afasia, aprassia, agnosia e deficit esecutivo. In alcuni casi, a questo quadro si affianca anche un disturbo psichico e comportamentale. È quindi facilmente comprensibile quanto possa essere invalidante questa demenza e quanto possa essere drammatica la quotidianità per il paziente affetto e per i suoi cari che giorno dopo giorno assistono impotenti non solo all’avanzamento dell’infermità mentale e fisica, ma anche alla retrocessione di ciò che secondo alcuni costituisce la più profonda essenza dell’essere umano: la sua memoria.

Sul morbo di Alzheimer sono state spese molte parole e molte teorie. La ricerca lavora ormai da decenni per trovare una cura; almeno per il momento però, dobbiamo arrenderci all’idea che ad oggi il progredire di questa malattia non può essere arrestato, al massimo rallentato. Molti film e molti romanzi ci aiutano a capire in cosa consista questa atroce patologia, ma trovo che il contributo più originale e allo stesso tempo più autentico possa essere accreditato al pittore William Utermolhen. Questo artista (1933-2007) fu un americano che passò buona parte della sua carriera a Londra lavorando come pittore. Nel 1995 gli fu diagnosticato il morbo di Alzheimer, ma Utermolhen decise di continuare comunque nel suo lavoro. Così dal 1996 al 2000 dipinse periodicamente un autoritratto. Le opere scaturite sono incredibili.

Notiamo che nel 1996 (l’anno dopo aver ricevuto la diagnosi) l’immagine è abbastanza integra, i tratti sono ben delineati e con confini precisi.

Un anno dopo la situazione era già cambiata. Il viso dell’uomo sembra non avere più una struttura umana, i tratti diventano confusi, imprecisi, la fronte dell’uomo raffigurato è sproporzionata e la figura lascia intravedere l’inizio di un declino cognitivo.

Nel 1998 la figura sembra essere ulteriormente deprivata di elementi. Notiamo infatti che la testa non è più attaccata ad un corpo come lo era stato nei ritratti precedenti, la figura è confusa, i tratti si fanno più grossi.

Nell’autoritratto del 1999 fatichiamo a comprendere che si tratti di un volto. La figura umana sembra essere totalmente disintegrata, non c’è nemmeno un elemento caratteristico del volto umano, rimane unicamente un blando tratto delineatore e l’uso dei colori che notiamo essersi incupiti.

Il disegno del 2000 è l’ultimo autoritratto. L’immagine è straziante, il tratto confuso, i colori spariti e gli occhi minuscoli. L’immagine di sé è ormai disintegrata, scissa, quasi inesistente.

Figura 1: Autoritratti di William Utermolhen dal 1967 al 2000.

Quello che ci ha lasciato Utermolhen non è una semplice testimonianza di malattia. Utermolhen ci ha dato la possibilità di guardare la realtà attraverso gli occhi del morbo di Alzheimer. Sapevamo già che il paziente affetto da Alzheimer viene colpito da un declino cognitivo, ma credo che mediante questi dipinti sia possibile capire qualcosa in più, forse l’essenza della patologia.

Guardare queste opere ci spinge a riflettere su quanto sia disperata la condizione di demenza. In particolare la depersonalizzazione che questa malattia impone è forse ciò che la rende così crudele. Chi siamo noi senza la nostra memoria? Chi siamo senza la consapevolezza di noi stessi e delle relazioni che abbiamo?

Fonte: stateofmind.it