Città sott’acqua, foreste che bruciano, tempeste, mareggiate, elefanti assetati che sconfinano nei villaggi. Scenari apocalittici, sono solo alcune delle notizie che rimbalzano in questi giorni da un lato all’altro del mondo e che, dai poli all’equatore passando per le città d’arte, mettono in ginocchio un’umanità smarrita, che accusa in differita e mette in campo il senno del poi come reazione più scontata e inutile agli eventi estremi che spazzano un Pianeta evidentemente vittima, in modo innegabile, delle conseguenze dei nostri comportamenti superficiali. Per riprendere una vignetta non nuovissima, ma decisamente appropriata per lo stuolo di negazionisti convinti, politicanti da quattro soldi, scienziati improvvisati e accusatori di professione… temporeggiatori unitevi… domani. Perché chi lavora tace, e chi si sta rimboccando le maniche nelle comunità investite da catastrofi annunciate non può far altro che darsi da fare a tamponare i disastri, con lo sconforto e la rabbia nel cuore, ma ancora con il coraggio di non arrendersi e lottare per i propri territori, che ospitano le proprie case, i propri affetti, le proprie relazioni gonfie di un futuro troppo spesso incerto.

Non sono però solo i danni alla natura e alla cultura che i cambiamenti climatici riversano a cascata sull’uomo e sugli ambienti antropizzati. Se questi non bastano a farci ricredere rispetto alla delirante rotta imboccata, c’è un aspetto che potrebbe far leva più di altri sul nostro cieco egoismo. Perché della cultura dai, chissenefrega. Figurati dell’ambiente. Ma anche noi siamo in pericolo, a partire dalla nostra salute. Questo ci interessa un po’ di più?

A darci qualche elemento di riflessione (e di preoccupazione) è il Lancet Countdown on Health and Climate Change, un report pubblicato lo scorso 13 novembre ed elaborato da 150 esperti di 27 enti diversi tra Università e Istituzioni nazionali e internazionali, tra cui anche la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha messo in luce come i danni che i cambiamenti climatici stanno provocando abbiano conseguenze molto pesanti sulla salute dell’uomo: e non si tratta solo delle più intuitive, come l’aumento di morti dovute a inondazioni, siccità e ondate di calore, ma anche di ricadute indirette, come la diffusione di malattie che usano gli insetti come vettore (p.es. la zanzara per la febbre Degue o la zecca per il morbo di Lyme), l’avvelenamento da cibo che deperisce più in fretta con l’aumento delle temperature e favorisce lo sviluppo di batteri come la salmonella, ma anche una maggiore resistenza agli antibiotici dell’E coli, che si rafforza in ambienti più caldi o il peggioramento generale della salute mentale (in particolare, disordini da stress post-traumatico, ansia, abuso di sostanze stupefacenti e depressione), senza contare gli effetti sulla produzione di cibo, per i quali le proiezioni delineano un calo dal 5 al 25% nella sola regione del Mediterraneo. Come dichiarato dal professor Andrew Haines, uno dei co-direttori della ricerca per l’European Academies’ Science Advisory Council (Easac), “Se alcuni degli impatti sono già evidenti adesso, nell’arco dei prossimi 100 anni il cambiamento climatico dovrà essere considerato una delle più serie minacce per la salute”.

Non tutti i risultati che emergono da questo studio (peraltro riassunto in questo breve videosono però negativi, segno che anche se quello che stiamo provocando non possiamo sperare che risulti reversibile, tanto meno nel breve periodo, si possono ottenere inversioni di rotta per lo meno incoraggianti: lo testimonia il calo nei dati annui relativi ai decessi prematuri in Europa a causa dell’inquinamento dell’aria, dovuto alle azioni volte a ridurre le emissioni di carbonio, azioni che non sono certo sufficienti da sole e in maniera isolata, ma che se messe in campo nelle loro più svariate declinazioni (tra cui anche attraverso decisioni apparentemente marginali, come l’adozione di diete vegetariane), permettono in ogni caso di ottenere dei benefici non trascurabili. Azioni che, come sottolineato dal report, se attuate su larga scala possono rivelarsi anzi “sostanziali”.

Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO/OMS) ha dichiarato che il disastro climatico rappresenta già un fattore di crisi per la salute mondiale e che affrontare il cambiamento climatico con provvedimenti seri e concreti vorrebbe dire salvare un milione di vite ogni anno. Agire diventa quindi un imperativo morale, condiviso anche dall’ultimo report pubblicato da EASAC, associazione che riunisce in Europa le Università nazionali di Scienze degli Stati membri, di Norvegia e Svizzera e riassunto in poche battute dal professor Haines, esperto di cambiamenti ambientali e salute pubblica della London School of Hygiene and Tropical Medicine: “Stiamo esponendo le future generazioni a crescenti rischi per la salute per le prossime centinaia d’anni […]. Pensiamo che reinquadrare il cambiamento climatico in un’ottica di salute pubblica possa aiutare a coinvolgere istituzioni e cittadinanza in un impegno diffuso e capillare, che faccia leva sulle preoccupazioni non solo per la propria salute, ma anche per quella dei propri cari.” Chissà che in questo caso autoreferenzialità e piccole attenzioni molto personali non portino a una mobilitazione di massa, che ottenga risultati efficaci e, per quanto ci è ancora possibile, rapidi.

Fonte: unimondo.org

https://www.unimondo.org/Notizie/Ammalati-di-cambiamenti-climatici-190723