Si sa, l’adolescenza è un periodo molto complesso e delicato: essa infatti rappresenta il momento critico in cui si cominciano a costruire le basi della nostra personalità e cominciano a maturare e a strutturarsi tutte quelle caratteristiche e capacità che ci accompagneranno per tutta la vita adulta.

Per questa ragione, come tutti i periodi di transizione e sviluppo, essa è anche la fase di maggior vulnerabilità e di rischio per l’esordio di una psicopatologia in quanto da un punto di vista biologico questa coincide con le maggiori riorganizzazioni e cambiamenti cerebrali soprattutto in termini strutturali di materia bianca e grigia e di connessioni funzionali nelle aree limbiche e prefrontali (Kessler, Amminger et al., 2007).

I comportamenti spesso stravaganti e impulsivi degli adolescenti, i loro pensieri bizzarri, le loro emozioni manifestate in modo incontrollato ed estremo spesso sono il riflesso di questo periodo di maturazione nel quale gradualmente si stanno affinando i meccanismi prefrontali di controllo, di regolazione e di pensiero.

Date queste premesse, molte ricerche hanno messo in luce come gli interventi e i trattamenti psicologici implementati durante questa finestra temporale di sviluppo possano risultare maggiormente efficaci per prevenire o comunque ridurre la probabilità di un esordio psicopatologico in età adulta dove spesso la gravità sintomatologica, non trattata precocemente, raggiunge il suo picco ed è in molti casi tale da compromettere il funzionamento globale dell’individuo in modo permanente (Drysdale, Grosenick et al., 2017).

L’ostacolo maggiore che impedisce l’azione nello stadio adolescenziale risiede nel fatto che i segnali psicopatologici ravvisabili in questo periodo sono spesso a-specifici e frutto di una commistione piuttosto ampia di fattori non solo biologici o psicologici, per cui risulta molto difficile identificare in modo non ambiguo i marcatori precoci di un disturbo psicologico in sviluppo.

A questo si associa anche la difficoltà nel fornire, durante l’adolescenza, una diagnosi che sia affidabile, precisa e inequivocabile a cui far seguire un intervento ad hoc, diagnosi che allo stesso tempo tenga conto dei notevoli e rapidissimi mutamenti che necessariamente si verificano in questo periodo di transizione e che sia pertanto, rispetto a quella adulta, più dimensionale che categoriale (Drysdale, Grosenick et al., 2017).

Da questi presupposti, è nata l’esigenza di esplorare nuovi approcci e tecniche di valutazione diagnostica che considerino la mutevolezza delle riorganizzazioni biologiche e psicosociali dell’adolescenza, identificando nuove metodologie che possano fornire elementi e misure più oggettive che non si basino esclusivamente sulla semplice descrizione fenomenica del disturbo, costituito prevalentemente da cluster sintomatologici e “costretto” da etichette categoriali.

La sfida maggiore che si presenta nel momento in cui si tenta la rottura dei confini diagnostici in favore della costruzione di una più ampio e omogeneo raggruppamento di sintomi transdiagnostici che possano essere tra di loro omogenei e condividere basi più oggettive potrebbe risiedere nella combinazione significativa delle evidenze biologiche e comportamentali.

L’idea da cui nasce lo studio di portata internazionale a cui hanno partecipato Ing dell’istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze del King’s College di Londra, Sämann dell’istituto di Psichiatria e di Neuroimaging del Max Planck Institute, e di Paillère Martinot del dipartimento di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza della Sorbonne Université, pubblicato recentemente su Nature Human Behaviour, è quella di riconfigurare le categorie diagnostiche classiche del DSM 5 e ICD 10 combinando dati comportamentali e di neuroimaging per far luce sulla diretta associazione tra misure cerebrali strutturali e funzionali in una popolazione adolescenziale senza far ricorso alle categorie diagnostiche psichiatriche tradizionali.

Lo scopo di questa ricerca è stata in primo luogo la dimostrazione dell’efficacia di una nuova metodologia che potesse combinare le risposte di adolescenti, dai 14 ai 19 anni, raccolte durante l’intervista psichiatrica DAWBA (Development and WellBeing Assessment, Goodman, Ford, Richards et al., 2000), con i dati morfologici ottenuti tramite la VBM, la voxel-basedmorphometry (Ashburner, 2007) e quelli funzionali relativi alla connettività tra network cerebrali mappati tramite fMRI e in secondo luogo la validazione di un nuovo e potenziale approccio per l’identificazione precoce di differenze o anomalie nei substrati neurali che sottostanno specifici gruppi di sintomi.

A parere degli autori infatti, le evidenze neurali che se ne ricaverebbero potrebbero costituire quei marker biologici predittivi di un esordio psicopatologico e quei segni oggettivi in grado di raffinare e sistematizzare in maniera più oggettiva e particolareggiata la diagnosi psichiatrica e di guidare con precisione ed efficacia gli interventi che la seguono prima ancora che il disturbo possa svilupparsi completamente.

A seguito delle analisi, Ing e colleghi (2019) hanno sottolineato la presenza di due distinti pattern cerebrali, non sovrapponibili, che rispettivamente correlano con due diversi cluster di sintomi psichiatrici: il primo cluster abbraccia prevalentemente sintomi legati all’area ansiosa e depressiva, il secondo è costituito da sintomi più legati a deficit nelle funzioni esecutive.

Ad esempio, i sintomi che canonicamente sono associati alla sfera ansiosa e depressiva, rispetto altri sintomi rilevati dalla DAWBA, hanno mostrato una correlazione significativa con una riduzione di volume della materia grigia del giro temporale e con un incremento a livello funzionale della connessione tra la rete di default-mode e il cervelletto (Ing, Sämann et al., 2019).

Tale evidenza risulta consistente con lo studio di Ray, Gross, Ochsner e colleghi (2005), il quale ha evidenziato come la rete di Default Mode risulti primariamente responsabile dell’ipermonitoraggio interno e dell’eccessiva concentrazione verso gli stati interni osservati negli individui con depressione maggiore

Concludendo, al di là della descrizione delle specifiche correlazioni ottenute, tramite la scoperta di queste correlazioni tra substrati neurali e dati comportamentali in una vasta popolazione di adolescenti, si preme mettere in luce come gli autori del presente studio abbiano di fatto identificato e caratterizzato i marker biologici precoci e predittivi di una potenziale manifestazione psicopatologica in età adulta, sostanziando con nuovi dati l’approccio che si muove progressivamente verso il superamento della tassonomia psichiatrica classica (Ing, Sämann et al., 2019).

Fonte: stateofmind.it