Un intervista a Franco Rotelli, allievo, collaboratore di Basaglia, oggi presidente della commissione regionale sanità in Friuli Venezia Giulia, tratta da La Stampa, 11 luglio 2017, Mauro Pianta. 

 

Quarant’anni fa, nell’estate del 1977, Luciano Manzi, l’allora sindaco di Collegno – nel torinese – in accordo con le istituzioni sanitarie territoriali, decise di far abbattere il primo pezzo del muro di cinta che circondava il manicomio. Qualcosa di più di un atto simbolico, perché per la prima volta le persone con malattie mentali, o almeno i casi meno complicati, riuscirono a guardare oltre quel muro. E poterono farlo, a loro volta, i cittadini. Fu uno dei primi passi verso quel movimento che portò, l’anno successivo, al varo della famosa legge n. 180 (che portava il nome del suo promotore, lo psichiatra Franco Basaglia) e alla conseguente abolizione degli ospedali psichiatrici.

Rotelli, partiamo dall’inizio: quando ha conosciuto Franco Basaglia?  

«Era il 1971, lo conobbi all’ospedale psichiatrico di Parma. Avevo letto delle cose su di lui, mi ero appena specializzato e abitavo da quelle parti. Dopo il suo arrivo tanti medici fuggivano terrorizzati da quell’ospedale, c’erano diversi posti liberi, venni assunto. L’anno successivo lavoravo a Trieste insieme a Franco»

Qual è stata la grande rivoluzione che ha portato nella psichiatria?  

«Con Franco è cambiato tutto, c’è stato un rovesciamento di “paradigma”. La malattia veniva messa tra parentesi, al primo posto c’era la persona con la sua dignità. E i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue esigenze. Da allora si stava di fronte a loro su un piano di parità».

Ma gli avversari di Basaglia sostenevano che si muoveva sul piano delle ideologie e non della realtà. Per questo, dicevano, trascurò pesantemente l’aspetto della pericolosità dei malati…  

«Credo che il discorso andrebbe rovesciato: era la vecchia psichiatria che attribuiva un peso esagerato alla pericolosità per poter continuare a mantenere e giustificare il suo potere. Alla fine degli anni Sessanta nei manicomi c’erano 100mila persone. Dopo il 1978 non abbiamo avuto un aumento dei reati proporzionale rispetto a questo numero. La verità è un’altra: le persone sono pericolose quando le tratti male».

“La libertà è terapeutica”: era uno degli slogan in quegli anni. Lei ci crede ancora?  

«Ci credo, eccome. Solo che la libertà non possiamo darla per scontata. E’ una conquista quotidiana, non un regalo o una concessione».

Cosa non funziona nella legge 180 del 1978?  

«E’ una grande legge, ma non è stata applicata del tutto. Nella maggior parte delle Regioni le cose sono state fatte poco e male con il risultato di servizi decisamente carenti in buona parte del Paese e un’enorme disparità fra i territori. Per troppe amministrazioni è stata vista solo come l’occasione per risparmiare soldi».