a cura di Paolo Aresi

Intervista al Presidente della Fondazione Emilia Bosis Pier Giacomo Lucchini

Presidente, allora adesso anche regista teatrale…

Sgombriamo subito il campo da spiacevoli equivoci, non ho alcuna pretesa di essere un regista teatrale, più semplicemente, ho inteso avvicinarmi al teatro in modo più diretto e coinvolgente. Intendo dire, che ho il desiderio di comunicare qualcosa al pubblico, qualcosa che sento particolarmente dentro di me, non necessariamente di carattere puramente teatrale, bensì un approccio essenzialmente drammaturgico.

Nel senso che la drammaturgia a poco a che fare con il teatro?
Un critico teatrale potrebbe risponderle più approfonditamente… penso che la drammaturgia si collochi oltre l’aspetto teatrale, in qualche modo, completando il teatro lo superi, si stacchi dalla stessa prosemica, dalla bravura degli attori che compiono il teatro, dalla fonica e dagli effetti scenici, anche di luce, la drammaturgia non è nient’altro che la metafisica teatrale.

Spesso la metafisica, proprio perché trascende il dato fattuale collocandosi oltre, rimane qualcosa di irraggiungibile o non completamente percepibile…

Anche qui va fatta una precisazione: “metafisica” semplicemente significa metà tà fusikà, ossia, qualcosa che si pone al di là della natura, non sopra né sotto, o di lato, o prima o poi, semplicemente al di là, per cui la metafisica non va confusa con qualcosa che è talmente al di sopra di noi o oltre da divenire non raggiungibile, la metafisica è uno status che già ci appartiene, è in noi… Il teatro, più che ogni altra forma di espressione artistica, esprime metafisica, esprime uno status che è al di là del palcoscenico, esprime interiorità.

In quest’ottica, alcuni registi, specie di teatro sociale e contemporaneo, affermano che il teatro fa male…

Guardi, la Fondazione Bosis, che investe molto nel teatro, collabora con alcuni registi o autori teatrali che da sempre mi hanno riferito e testimoniato sul campo che il teatro “fà male”, certamente, dobbiamo intenderci su questa affermazione: partirei da una domanda, ossia, come è possibile utilizzare un teatro che fa male sulle persone e alle persone, specialmente su persone che soffrono già di per sé causa problematiche psichiatriche? utilizzare un teatro di tal fatta, significherebbe essere dei sadomasochisti, o, nella migliore delle ipotesi, dei pessimi terapeuti. E allora proviamo a rovesciare la domanda, svuotandola di un significato meramente negativo. Fare teatro significa soffrire sul campo, sul palcoscenico, in un laboratorio, patire le proprie fragilità unitamente a quelle degli altri compagni di viaggio: essere immersi nel teatro e a teatro, comporta prendersi cura soprattutto degli altri che ci circondano, ci privano del nostro spazio, invadono il nostro corpo arrivando perfino ad abitarlo un poco, in altri termini, abitando noi un teatro arriviamo forse ad abitare qualcosa di più grande di noi stessi; tutto ciò comporta un certo tipo di violenza, di invasione, di intromissione. In questo senso, anche io concordo sul fatto che il teatro può far male.

Ma allora esiste una possibilità di liberazione da un teatro che fa male?
Direi che non è importante liberarsi dal teatro, bensì, liberarsi nel teatro: questa è la vera possibilità di un teatro, la sua stessa metafisica drammaturgia come dicevo prima, un teatro che ci rende liberi; questo è bellissimo, è una sensazione non di dominio sulle cose o sugli altri, ma un piacevole fluttuare immersi nelle profondità della nostra stessa esistenza: è come quando ci si tuffa in acqua e immergendosi ci si sente leggeri, fuori dal proprio corpo, oltre una dimensione contingente, certamente poi, quando si nuota parecchio, ci si “fa male”, ci “fa male tutto il corpo”.

Ma se si è allenati, tutto può far meno male
Esattamente, proprio perché l’allenamento non elimina la fatica in sé, solo ci si abitua a sopportare maggiormente la fatica, allenare il corpo e la parola al teatro resta l’unica possibilità di essere liberi nel teatro.

Uno slogan in pillole per guarire da un teatro che “fa male” ?
Non ci si cura con il teatro se non ci si prende veramente cura del teatro.

Torniamo alla drammaturgia: oggi assistiamo a pierce teatrali anche di notevole impatto, ma spesse volte, il pubblico non riesce a percepire nitidamente ciò che il regista intende esprimere, in quanto il linguaggio utilizzato è molto intriso di intellettualismo e di un vocabolario non alla portata di tutti…
G
uardi, sul vocabolario del teatro la questione è semplice: il linguaggio, per lo meno quello che intendiamo comunemente oggi per linguaggio, ha una sua struttura elementare… il linguaggio è fatto di parole, le parole esprimono una semantica che si realizza attraverso una grammatica ed una analisi logica del pensiero…tutti possono intendere questo concetto: il problema nasce piuttosto quando il linguaggio utilizzato non esprime a pieno l’emozione che si vuole trasmettere attraverso una azione scenica, ma questa è la grandezza del teatro, non di avvicinarsi al sublime e all’emozione mediante la parola ricercata bensì mediante un povero vocabolario…. povero non nel senso di “semplicismo” drammaturgico, ma di una drammaturgia che pur collocandosi oltre si rende capibile a tutti. La questione dell’intellettualismo è una questione che ha sulle spalle una storia lunga circa 25 secoli: se pensiamo alla storia del pensiero occidentale, dobbiamo ricercare le sue origini in Grecia, dove, fra l’altro, è nato il teatro. Ora, per intenderci, riflettiamo sul pensiero filosofico: Talete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito, Parmenide, Socrate. Sei persone che hanno aperto il campo filosofico, e, a mio parere, chiuso. Tutti coloro che sono venuti dopo di loro, hanno caratterizzato la filosofia in modo scolastico, accademico, allontanandola sempre di più dalla gente comune. Non è un caso che le sei persone soprammenzionate non hanno mai insegnato in un luogo pubblico, non hanno mai aperto un scuola, non hanno mai avuto la presunzione di sistematizzare il pensiero… persone che si meravigliavano della natura e di tutto ciò che li circondava, e stando tra la gente, li rendevano partecipi di questa grande festa teatrale.

Quindi il teatro ha fatto la stessa fine della filosofia?
Penso di si, un teatro che non sta tra la gente non è teatro, ecco perché spesse volte non è compreso, non tanto per il linguaggio, ma per il fatto che non è più tra la gente. Del resto, in campo filosofico Heidegger e Severino e in campo teatrale Peter Brook, Grotowski e Kantor ritengono la filosofia delle origini e il teatro delle origini più vicini alla verità che poi, per lungo tempo, l’Occidente ha dimenticato.

Filosofia e Teatro allora camminano insieme, potremmo dire che la mente è come il teatro?
Lei ha detto bene, anzi, forse non sa che un noto psichiatra contemporaneo, Fausto Petrella, presidente della Società psicoanalitica italiana per lungo tempo, ha scritto un libro importantissimo, che consiglio di leggere a tutti, dal titolo La Mente come Teatro.

Torniamo ora alla domanda iniziale: come è nata l’idea del Frankestein?
Sono sempre stato affezionato al romanzo di Mary Shelley, una pietra miliare della letteratura. Un grandissimo romanzo, purtroppo completamente travisato dalla televisione: questa, spudoratamente, ha solamente colto l’aspetto macabro e sensazionalisticamente orrendo della creatura del dottore sig. Frankestein… il romanzo, è quasi completamente una ricerca da parte della creatura del senso della vita, della difficoltà del vivere quotidiano… la creatura, fà fatica a capire il senso di esclusione, di emarginazione sociale, percepisce cattiveria intorno alla sua presenza, per cui si ribella, inizialmente in modo costruttivo, vuole imparare a vivere, vuole dialogare, frequentare il mondo… solo quando il creatore capisce lo sbaglio che ha commesso, frutto dell’arroganza e della smisurata sete di conoscenza scientifica, solo quando il creatore decide di annientare la creatura ecco che il “mostro” compie efferati omicidi, per vendetta

L’esistenza della creatura ha quindi a che fare con il contesto in cui Lei lavora…
Sarebbe troppo riduttivo accostare la vicenda della creatura a quella di molte esistenze patologiche che si succedono nelle comunità della Fondazione… la vicenda della creatura è la vicenda di tutti noi… chi di noi non si è mai sentito rifiutato? chi di noi non si è sentito giudicato da qualcuno?

Ci risiamo quindi, è l’idea della negazione come esclusione sociale ?

Questa sua affermazione coglie a pieno il senso della mia drammaturgia e mi permette di fare una piccola riflessione: da tempo, abbiamo dimenticato l’invito che alcuni anni orsono ci ha testimoniato Franco Basaglia… Questo illuminato psichiatra, passato alla storia come colui che per primo ha sollecitato la chiusura dei manicomi, in realtà, è stato più volte strumentalizzato e utilizzato per fini politici e socio-sanitari-culturali lontani dal suo stesso pensiero e agito clinico-scientifico… Basaglia è stato un gigante della clinica non per la chiusura dei manicomi, avvenuta tra l’altro molti anni dopo la sua intuizione, bensì per una sua idea innovativa e radicalmente di rottura con la cultura dominante e istituzionale di quegli anni…. Basaglia ci ha parlato per primo di un approccio critico alla patologia, era fortemente convinto della necessità di criticare l’idea intellettualistica della negazione intesa come esclusione… alla luce di ciò, ha teorizzato e praticato l’idea della negazione piuttosto come inclusione per approdare ad una filosofia dell’ospitalità

Oggi ha che punto siamo?
Siamo in una situazione di limbo clinico e culturale, come è avvenuto per la filosofia e per il teatro… ci siamo dimenticati delle origini del fare cultura, di svolgere interventi sanitari centrati non sul paziente ma sulla persona, ci stiamo scordando dell’enorme spinta motivazionale e di significato dell’approccio critico

Può sembrare una visione catastrofica…
Assolutamente no, molta strada è stata percorsa, nessuno di noi può negare i progressi in campo psico-farmacologico, terapeutico-riabilitativo e di integrazione sociale… il problema non è questo, il problema è, e mi ripeto, che ci stiamo dimenticando dell’approccio critico… la persona è talmente complessa che non può essere schematizzata in rigidi protocolli scientifici, la persona è oltre la diagnosi, supera per complessità la stessa medicina, la persona è cultura

Ritorniamo al teatro… in tempi non sospetti, dove la cultura non sembra tra le priorità della politica come programmazione, l’aver realizzato Teatro Stalla sembra un atto di coraggio. A che punto siamo?
Non mi preoccuperei tanto di analizzare se la scelta di aver realizzato Teatro Stalla sia stata un puro atto di coraggio, piuttosto, mi piace pensare che Teatro Stalla è frutto di un lungo processo culturale che ha sempre caratterizzato la filosofia operativa e di pensiero della Fondazione Bosis… certamente le cose non si fanno per caso o da soli, sono frutto inizialmente di idee innovative che poi si traducono in progetti concreti… il punto è che non siamo a nessun punto, nel senso che la pluralità dei linguaggi artistici e scientifici non si collocano in punti determinati, è una continua ricerca, è un continuo scoprire, è un costante rimettersi in gioco. E’ fondamentale che i linguaggi, pur nella loro legittima specificità, si parlino tra di loro

Un ultima domanda: siamo un poco curiosi, cosa ci si può aspettare dal suo Frankenstein?
E’ una drammaturgia che ho condiviso e continuo a condividere con altri protagonisti… sono tante le persone che mi hanno aiutato, consigliato e corretto… grazie a loro, e soprattutto agli attori che realizzeranno “ Io e Frankestein “ ho potuto assaporare un clima di ospitalità culturale”. Ho avuto poi la fortuna di collaborare con artisti di rilievo, che coltivano una pluralità di linguaggi artistici… Con questo lavoro, abbiamo inteso abbracciare il pubblico, renderlo partecipe dell’opera, trascinandolo emotivamente all’interno di qualcosa…. appunto, di una metafisica… Quinte nomadi, vedo non vedo, musica, canto, corpo, plasticità, sobrietà di parole…per un teatro di accoglienza

Dimenticavo: ci saranno anche gli animali?
Teatro Stalla non può fare a meno di loro, Teatro Stalla è soprattutto loro… sono gli animali-non umani, come dice Derridda, che ci permettono di guadagnare lo spazio, rarefatto e difficile in cui splende l’innocenza dell’essere”