Terapia

La relazione

Quando parliamo di relazione, ci riferiamo alla relazione di cura. Nell’accezione più ampia del termine relazione, l’uomo esiste come persona nella misura in cui è in relazione con altri e, in questi termini, la relazione tra due persone esiste a prescindere dalla loro intenzionalità ad interagire. Nella relazione di cura invece l’intenzionalità è aspetto fondamentale e necessario. Una buona relazione è fatica, è lavoro, non è data per scontata una volta per tutte, non si è in una buona relazione solo per il fatto di essere presenti.

Per relazione di cura ci si deve necessariamente riferire al concetto di legame come definizione di senso dell’essere insieme, come riconoscimento reciproco tra ospite ed operatore. Tale legame implica almeno due capi: operatore e ospite, e quest’ultimo si relaziona sia alla persona sia al ruolo che questa veste. Il concetto di ruolo rimanda alla responsabilità del porsi entro una relazione di cura. Vivere quotidianamente la relazione con l’ospite implica oscillare in una terra di confine, terra dove transitano aspetti emotivo-affettivi che vanno compresi e integrati rispetto all’assetto che si è chiamati ad assumere consapevolmente. Il “prendersi cura di” esprime l’assetto dell’operatore che conserva uno spazio sufficientemente libero da poter vedere l’Altro in modo partecipe e distinto. La relazione è il nostro modo di operare, è il nostro modo di esserci, di essere-con l’altro. La relazione è lo strumento. Ognuno di noi ha il proprio modo di stabilire relazioni e porta all’interno di queste la propria soggettività pur facendo attenzione a mantenere gli equilibri che si stabiliscono entro il gruppo. Ogni relazione è esclusiva, si costruisce sulle soggettività delle persone che la costruiscono, ma poiché queste sono situate entro un contesto operativo, è anche il frutto dei rapporti che l’ospite stabilisce con tutte le altre figure intorno a lui. È importante tener presente che si oscilla tra la propria individualità e, in quanto operatore membro del gruppo, il proprio ruolo. Transitando in modo essibile tra l’una e l’altra posizione si garantisce lo stabilirsi della relazione e il mantenimento della stessa entro il contesto di gruppo.

Essere presenti, in un contesto terapeutico, significa porsi con una modalità particolare che comporta presenza attiva, condivisione, ascolto. Il nostro stare con l’ospite si traduce nel cercare un rapporto, una comunicazione che non sia a senso unico ma esperienza reciproca, dove il rispetto dell’altro diventi condizione necessaria. La capacità di riconoscersi come persona e di distinguersi dall’altro è un momento fondamentale per la consapevolezza della propria soggettività e l’uscita dalla fusionalità psicotica. Il legame quindi diventa fine e strumento e non laccio che condiziona la crescita dell’individuo, per consentire il passaggio dall’indistinto alla separazione io-tu. La dimensione della reciprocità implica lo stabilire un rapporto di scambio con una perso- na. La reciprocità è soprattutto un atteggiamento con cui si va verso l’altro. È nella relazione che il fare assume significato. Nei servizi il fare è sempre in primo piano ed è parte integrante del progetto terapeutico. È nel fare che, almeno inizialmente, si stabilisce un contatto con l’ospite il cui funzionamento mentale è molto primitivo (concetto di “azioni parlanti”: Paul-Claude Racamier 1997, Una comunità di cura psicoterapica. In: Psichiatrie Francaise N. 1,1997 P137-152).

Aspetto peculiare della riabilitazione è la clinica del quotidiano, in cui ogni momento della giornata diventa occasione per apprendere dall’esperienza. La vita di tutti i giorni entro uno spazio contenitore di supporto, nella condivisione con gli altri ospiti e gli operatori degli avvenimenti, delle attività, delle emozioni, assume funzione terapeutica in un continuo processo di significazione. Gli ospiti vengono spronati a prendere parte alle attività, a condividere con gli altri i momenti della giornata, a coltivare i propri interessi.

Anche il coinvolgimento nella cura degli ambienti è essenziale per aiutare la persona ad appropriarsi del proprio spazio e instaurare un legame con esso. La cornice che regola l’assetto nei vari servizi con le sue norme, le sue cadenze temporali, la ritmicità del fare quotidiano ha inoltre il significato di far sperimentare la continuità dei tempi e degli spazi che spesso gli ospiti hanno perduto. È un modo per far sperimentare che le cose durano e la quotidianità, in questo senso, diventa un importante fattore terapeutico. Lo spazio terapeutico si configura infatti come laboratorio sociale dove si può sperimentare una particolare forma di stare insieme, la comunità appunto, che tenta di implementare il benessere della persona aiutandola a sviluppare e a mantenere le risorse di cui dispone.

Questo modo di stare insieme prevede un’intensa esperienza di gruppo e la pos-sibilità di riacquistare la gestione diretta della propria vita in tutti gli aspetti, anche quelli più minutamente quotidiani. Una comunità sufficientemente buona non garantisce che gli individui diventino maturi e solidi, ma può creare le condizioni perché ognuno possa sviluppare al massimo le proprie potenzialità e possa accettare il più serenamente possibile i propri limiti.

Attraverso le attività non si sperimenta solo la continuità ma una nuova modalità relazionale. Sperimentare l’esistenza di diversi modi possibili di entrare in relazione, rende il “fare” uno strumento utile a promuovere modi di relazionarsi. Il fare non deve diventare un modo per sottrarsi alla relazione ma per entrarvi, nasce dallo scambio, dalla possibilità di nuovi pensieri che si traducano in azioni. Nella relazione di cura anche il non-intervento, purché pensato e condiviso è uno strumento terapeutico altrettanto funzionale. Nell’équipe curante si stabilisce la modalità più idonea tenendo presente che è il pensiero a muovere l’azione è che la comprensione dell’altro è uno dei fattori che rende terapeutica la relazione. Non è quindi l’azione in sé ad esserlo ma l’azione pensata ad hoc. È sempre il senso, il modo di stare all’interno del lavoro che restituisce la funzione.

La relazione nasce dalla pensabilità del senso intesa come possibilità di produrre un nuovo modo di stare-con. La direzione è quella del senso, e il nostro stile di lavoro è volto a creare legami. Nel rapporto con il delirio la relazione implica uno sforzo continuo e costante, con uno sguardo distaccato e consapevole del mondo delirante, per non rischiare di interagire su un piano di collusione. Riuscire ad entrare in questo mondo significa saper tollerare angosce, paure e pensieri in una posizione che non sia di giudizio ma di ascolto. Oltre alla reciprocità è fondamentale la costanza del rapporto nel tempo quale variabile che assume una funzione nella costruzione della relazione e che permette l’evoluzione di rapporti stabili. Attraverso il tempo trascorso insieme ci si conosce e si sperimenta la stabilità. La costanza, che non è rigidità ma equilibrio, contiene in sé la possibilità del cambiamento sia di sguardo che di atteggiamento. L’équipe accoglie il cambiamento, nello sforzo di non rimanere imprigionati nella ripetitività, e la relazione si evolve.

Spostando la riflessione su un altro fronte la domanda che ci si pone è se e quando le relazioni di cura possano trasformarsi in altro. È importante distinguere e stabilire quando la relazione tra operatore e ospite stia scivolando verso il venir meno della distanza necessaria. Quando nella relazione con l’ospite i vissuti personali dell’operatore si confondono o si sovrappongono a quelli dell’ospite senza che ci sia consapevolezza di questo, vien meno il presupposto della cura. In alcuni casi si possono innescare simmetrie nelle risposte (aggressività – contro aggressività) che non mettono più un confine al piano emotivo generando un vortice di identificazioni e controidentificazioni.

Nella psicosi uno degli aspetti preponderanti è la fusionalità con l’oggetto, quindi il problema del saper stabilire un confine è fondamentale. Affrontare il tema del confine e della fusionalità in riferimento all’organizzazione istituzionale del setting significa porsi costantemente la questione della qualità delle relazioni che si vanno a costituire. Una buona capacità relazionale presuppone una grande elasticità nel mettersi in rapporto, modulando il proprio modo di essere in funzione di chi si ha davanti.

L’asse della rifiessione si sposta sull’operatore perché la relazione di cura non è simmetrica e presuppone la consapevolezza del ruolo. Il ruolo di operatore stabilisce un confine, definisce una cornice di relazione, rimanda alla responsabilità operativa.

L’équipe

Il “prendersi cura di” si esprime negli aspetti della relazione e della centralità della persona. Entrambi questi aspetti fanno si che l’équipe diventi momento e funzione centrale e determinante nel nostro stile di lavoro.

Lavoro che persegue la condivisione e integrazione nella comunità, per permettere la creazione di un clima che restituisca all’ospite un senso di stabilità esistenziale e benessere. L’obiettivo del lavoro in équipe diviene da subito la definizione e l’accoglienza dell’ospite, sia sul piano reale dei concetti e delle azioni che lo riguardano (dimensione diagnostica, analisi delle capacità, stili relazionali, progetti terapeutici, etc.), che sul piano fantasmatico dei vissuti individuali e collettivi, vale a dire la serie di emozioni, ricordi e paure che l’ospite suscita negli operatori e nel gruppo.

Nel nostro pensiero l’équipe è costituita da tutti gli operatori che concorrono alla vita di comunità e che hanno relazioni con l’ospite, al servizio dell’idea di una presa in carico condivisa ed integrata. Lavoro d’équipe che consenta da un lato una visione più ampia delle caratteristiche della persona (come una immagine cui ciascuno attivamente concorre) e dall’altro una attiva partecipazione degli operatori al percorso terapeutico. L’idea di équipe è ovviamente proiettata nel tempo, un tempo in cui le variazioni della situazione dell’ospite sono soggetto/oggetto del lavoro condiviso, alla ricerca delle reali possibilità di cambiamento mediante l’articolazione dei movimenti sincronici e prospettici che l’ospite richiede.

Oltre agli aspetti sopra descritti all’équipe compete il compito di analizzare/elaborare le risposte emotive degli operatori, sia verso l’ospite che tra di loro. L’équipe cerca di ridurre il più possibile le derive scissionali, le scotomizzazioni, gli atteggiamenti aggressivi con- sapevoli ed inconsapevoli, l’invasione da parte di aspetti eccessivamente soggettivi del gruppo degli operatori nell’ambiente affettivamente contenitivo della Comunità. Il gruppo équipe diviene quindi spazio dialettico in cui la soggettività degli operatori si stempera e confluisce in un pensiero condiviso, in cui il senso degli interventi possa essere accolto anche da chi magari ha una posizione personale diversa.

In linea ipotetica nello spazio équipe dovrebbe poter confluire la rete di relazioni ed emozioni ovviamente presente nel contesto comunità: le frustrazioni, la rabbia, la tristezza ma anche la gioia, la soddisfazione, la consonanza contingenti a situazioni di rapporto a livelli diversi (singolo-singolo, singolo-contesto comunitario, singolo-sottogruppo, sottogruppo-sottogruppo e così via). L’équipe deve quindi tendere a realizzare l’integrazione, la maggior possibile univocità al servizio della relazione, strumento principe del lavoro terapeutico. Se l’équipe non è unita le singole relazioni rischiano derive e scissioni (amore/ odio etc.) e possono divenire motivo di conflitto, rottura e difficoltà operative.

Per poter utilizzare le relazioni come strumento terapeutico è necessario condividere con il gruppo di lavoro ciò che accade. In questa prospettiva uno spazio di pensiero va rivolto anche allo stile di lavoro dei colleghi nel difficile tentativo di non restituire nei discorsi e nei confronti immagini cristallizzate dell’operare ma continui cambiamenti di vertice osservativo. Risulta pertanto fondamentale poter vedere l’elasticità del collega non identificandolo in un rigido modo di operare al fine di mantenere la dialettica tra stile personale ed elaborazione in gruppo. È importante perciò che non si respiri un’aria di giudizio, ma di confronto nella consapevolezza delle normali difficoltà presenti nell’agire quotidiano: ad esempio in alcuni momenti la necessità del singolo di prendere decisioni nell’immediato, senza possibilità di condivisione con l’équipe se non a posteriori, genera in seguito la difficoltà a rielaborare cosa ha condotto a quella scelta. Altro aspetto di difficoltà sta nella fatica ad esprimere in équipe il vissuto dell’operatore rispetto a quei pazienti che lo coinvolgono di più sul piano emotivo pur sapendo che è parte della patologia l’amplificare e far sentire emozioni forti e contrastanti. L’assetto di lavoro deve presupporre che la singola difficoltà o la singola fatica debba essere pensata come il risultato di una relazione più ampia che coinvolga tutte le persone del contesto in modo da spostare il focus dal singolo al gruppo. Attraverso questo passaggio il confronto con questioni di fondo e problemi contingenti può avvenire con un senso di minor solitudine.

La frammentazione psicotica distribuisce parti che il gruppo deve saper ricompattare; Paul-Claude Racamier descrive come l’ambiente della comunità terapeutica (quindi l’équipe che la costituisce) incida in modo rilevante nel mantenimento o nel superamento di aspetti scissionali del paziente: “se due membri o due “clan” latenti di una stessa équipe terapeutica adottano punti di vista divergenti ed entrano in un conflitto nascosto e privato a proposito di un punto, che entrambi considerano essenziale, si assisterà al fatto che il malato, da parte sua, presenterà un aggravamento dei sintomi ed una dissociazione del comportamento che si risolverà quando il conflitto di cui egli è l’oggetto arriverà ad una risoluzione, o per la sconfitta di uno dei due protagonisti o, in un modo più costruttivo, per una reciproca presa di coscienza del loro disaccordo e l’adozione di un comune punto di vista.” (Paul-Claude Racamier, 1972, Lo psicoanalista senza divano).

Lo spazio équipe si configura quindi come ambiente dinamico di elaborazione nel tempo in cui andare alla ricerca del senso dell’operare soggettivo e condiviso, che porti alla maggior possibile chiarezza della comunicazione sia tra gli operatori che con gli ospiti.