Accoglienza

La centralità della persona

All’interno dello spazio Comunità o Centro Diurno, oggetto del nostro operare è la persona nella sua totalità e nella sua individualità. Pensiamo pertanto che non si possa prescindere dalla soggettività cui si rivolge la nostra azione. Entro questo spazio relazionale la diagnosi e i sintomi non sono l’elemento più importante che ci guida. Lavorare con l’imperativo del qui e ora significa imparare a concentrarsi sul presente entro la cornice dello spazio comunitario.

La progettualità ha in sé il futuro, l’operatività è nel qui e ora dell’incontro. Il tempo della cura attraversa tutti i tempi della vita e della storia della persona. L’acuzie, della quale ci si occupa nel reparto ospedaliero, è un momento della malattia, mentre noi dobbiamo prendere in considerazione tutta la storia della persona, nel suo presente, per il suo futuro e nel ripensamento del passato. L’elemento curante diventa quindi un tentativo di restituire al paziente psicotico una sua storia, superando la frammentazione che spesso ha contraddistinto la sua vita interiore e consentendogli di recuperare un’immagine integrata di sé.

L’unicità del trattamento si traduce in interventi operativi quotidiani pensati nel dettaglio per ognuno degli ospiti accolti: il percorso riabilitativo si occupa di aree cognitive, relazionali ed esperienziali. Rispondere alla soggettività fa sentire l’altro veramente persona, con i suoi pregi e suoi difetti, le sue parti sane e quelle malate, ma anche con le sue responsabilità, i suoi diritti e i suoi doveri. Sentirsi rispondere in modo differenziato aiuta a riconoscersi nella propria identità e rimanda ad un senso di autenticità della relazione.

Oltre che tecnica la risposta dovrebbe essere necessariamente affettiva: implica piani diversi e profondi dell’essere in relazione. Il piano emotivo ci rimanda al concetto di contenitore; attraverso la presenza, lo scambio e il confronto la persona si sente sostenuta, contenuta; come una buona madre sa tenere in braccio suo figlio facendolo sentire sicuro, perché sostenuto e contenuto fra le sue braccia. È un abbraccio, non è una costrizione soffocante. Quando si parla di contenitore, si parla di contenimento (da non confondersi con contenzione) relazionale per intendere un clima, un approccio che rimandi ad una condizione di intimità, di famigliarità.

Pensare la persona al di là della diagnosi, con la sua storia, la sua vita, i suoi interessi, le sue caratteristiche significa, per noi, porla al centro. L’attenzione all’altro sta anche nel fare un’attenta valutazione di ciò che non risulta adeguato a quella persona. La scelta delle attività di gruppo o individuali è strettamente legata sia alla capacità dell’ospite di stare in gruppo sia all’organizzazione interna del lavoro. Il gruppo e l’individuale rimandano alla possibilità di identificarsi e sentirsi parte di uno spazio pensato. Il senso dell’incontro va ricercato ogni volta dando voce alla soggettività. In quest’ottica il gruppo conduce verso un obiettivo comune e verso l’interazione. La strutturazione dei lavori di gruppo ha come finalità il fare con l’altro ma soprattutto lo stare con l’altro. Di fronte alla fatica che spesso la persona vive nell’aderire alle situazioni di gruppo, l’attenzione e le proposte sono orientate ad aiutare ad esperire un contatto in relazioni stabili entro un contesto protetto.

Strutturare interventi, anche minimali, basati su dettagli, dando attenzione alle sfumature delle relazioni che si costruiscono, significa avere la persona al centro, senza chiedere un’adesione a un lavoro già preparato, ma costruendo la quotidianità giorno per giorno. I progetti si strutturano quindi anche nel capire, rispettare e incontrare l’altro attraverso un percorso di soggettivizzazione che permetta il passaggio dalla condizione di paziente a quella di persona o, come noi lo consideriamo, ospite. Il tentativo è quello di rendere effettivo, nella concretezza del fare, questo discorso. In termini operativi il concetto di soggettivizzazione si traduce nell’avere uno sguardo sull’incontro, in tutti i suoi aspetti, valorizzando anche i piccoli passi, partendo dal presupposto che è importante non banalizzare le cose di tutti i giorni, la costanza, il contatto. Tutto quello che si fa quotidianamente è importante. Avere al centro la persona significa necessariamente accogliere la famiglia di cui fa parte.

L’attenzione ai famigliari dell’ospite rientra a pieno titolo nel programma riabilitativo teso a definire il percorso. Accogliere i parenti e considerarli parte del progetto significa porre attenzione sia all’arricchente prospettiva di cui sono portatori nella visione e nella conoscenza dell’ospite (il famigliare conosce molto bene l’ospite ed è in grado di fornire preziose indicazioni all’équipe soprattutto nella fase iniziale del percorso) sia all’importante lavoro di supporto al nucleo stesso. Informare i famigliari di ciò che avviene nel servizio, degli obiettivi e delle modalità di cura, aiuta a contenere le preoccupazioni e le ansie presenti all’ingresso in struttura, favorendo l’instaurarsi di un rapporto di fiducia necessario alla presa in carico della persona.

La motivazione a proseguire il percorso intrapreso e la buona riuscita dello stesso passa anche nella buona collaborazione che l’équipe è in grado di stabilire con i famigliari. Il parente, se ha chiaro il percorso potrà motivare e sostenere l’ospite a proseguire nei momenti di difficoltà, dandogli come rimando che famiglia ed équipe sono concordi nella visione di ciò che è necessario fare. Un fronte comune evita scissioni e manipolazioni volte a boicottare il progetto. Nell’ipotesi di rientro in famiglia a fine percorso, nei casi di progetti di residenzialità, o a ne giornata nell’ipotesi di frequenza al Centro Diurno, l’obiettivo che ci si pone è che le autonomie sperimentate nel contesto della Comunità o del Centro Diurno possano mantenersi e migliorare in quello famigliare, in modo che questo possa riconoscere e accogliere il cambiamento in atto nella persona. Aiutare i famigliari a vedere le diverse sfaccettature della malattia e della cura significa creare un terreno entro cui il percorso possa, nel futuro, far crescere i propri frutti. Diversamente risulta molto più faticoso mantenere quanto appreso o riappreso in termini di abilità durante il progetto terapeutico. La necessità di coinvolgere i familiari nei progetti terapeutico-riabilitativi degli ospiti è opinione diffusa e condivisa da una vasta letteratura. L’epoca della colpevolizzazione della famiglia è fortunatamente tramontata. Un tempo accadeva spesso che il coinvolgimento dei famigliari servisse ad aumentare il loro senso di colpa latente anziché fornire un aiuto per comprendere le possibili strategie per migliorare la relazione e la comunicazione all’interno del nucleo familiare. Appare ormai assodato, invece, che il ruolo della famiglia nel progetto terapeutico è fondamentale in almeno due istanze: la prima che vuole la fami- glia come destinataria di attenzioni e di cura attraverso modalità che vanno dalla psicoeducazione (spiegazione della malattia, decolpevolizzazione) al supporto; la seconda attraverso il coinvolgimento attivo (partecipazione e responsabilizzazione) dei gruppi famigliari nel trattamento, nella riabilitazione e nei tentativi di reinserimento sociale e lavorativo.

Gli ospiti delle strutture psichiatriche, sia residenziali che semi-residenziali, sono in genere affetti da patologie gravi, caratterizzate da fusionalità simbiotica; essi non sono riusciti ad evolvere verso quei processi di separazione ed individuazione che contribuiscono alla costruzione di un Sé solido. Sin dai primi colloqui è molto utile valutare la posizione relazionale della famiglia rispetto all’inserimento del paziente nella struttura. Le situazioni che si verificano più frequentemente sono sostanzialmente tre:

  1. vissuti di espulsione e delega totale
  2. ambivalenza rispetto all’inserimento
  3. accompagnamento e affidamento

 

A seconda quindi degli atteggiamenti dimostrati si rendono necessari comportamenti differenziati per poter creare un’alleanza di lavoro e formulare un progetto che permetta a tutti di condividerlo e portarlo avanti. Nel primo caso si tenterà di chiarire i motivi della conflittualità per diminuire la tensione, nel tentativo di ridimensionare i moti espulsivi e di aumentare l’autonomia dell’ospite, salvaguardando il rapporto con la famiglia. Nel secondo caso si mirerà a cooptare i famigliari come co-terapeuti, per farli sentire partecipi del progetto, attraverso anche un adeguato sostegno relazionale che possa riempire il vuoto lasciato dal congiunto. Nel terzo caso ci si occuperà di favorire un distacco meno traumatico possibile, aiutando entrambi i poli della coppia simbiotica ad elaborare il lutto, rassicurandoli che la funzione di accudimento, portata avanti dall’équipe, garantirà la sopravvivenza e l’integrità dell’ospite.